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Il sistema della giustizia penale come solo  dispensatore di sofferenza non è tollerabile. Neppure infliggere dolore  all’autore di una strage è utile al miglioramento della società: al sangue  delle vittime si aggiungerebbe unicamente una sofferenza in più: quella del  pluriomicida condannato. Quanto, poi, possa essere giusto reagire al male con  il male ci sembra una questione oggi priva di senso, stante che la pena  retributiva rinvia all’idea di meritevolezza di pena improponibile in uno Stato  laico.
  
      
    
   
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Eppure nella cultura patibolare che da millenni ci  ammorba, alla paura di essere vittime, collettivamente reagiamo invocando  penalità come sofferenza nei confronti di chi giudichiamo pericoloso perché  autore di un delitto. L’idea che al male si debba reagire con il male finisce  così per non essere messa in discussione, quasi fosse una ovvietà. Mentre, con  spirito critico, dovremmo interrogarci su cosa possiamo fare per limitare il  delitto, perché il delitto è esso pure sofferenza, dolore, male.
      
    
   
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Nella società moderna, la reazione al delitto è  politicamente legittima solo se utile, cioè se capace di contrastare la  criminalità e/o contenere la recidiva: cioè, se la reazione al delitto è  effettivamente capace di prevenire futuri delitti.
      
    
   
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Con l’avvento dell’era moderna, la società occidentale  ha ritenuto che la pena privativa della libertà – cioè il carcere – avesse sia  la virtù di minimizzare la sofferenza della reazione penale, sia la capacità di  intimidire i potenziali violatori dal delinquere, nonché di educare i  condannati a non recidivare. Il carcere fu salutato come fulgida invenzione del  progresso dei tempi: una pena finalmente democratica, perché privativa di un  bene da tutti gli uomini posseduto e apprezzato in uguale misura: la libertà  personale; una pena misurabile con estrema precisione: da un secondo  all’eternità; una pena economicamente virtuosa, perché finalizzata ad un  progetto di inclusione sociale del condannato.
      
    
   
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Le finalità di prevenzione non sono mai entrate in  crisi: esse furono e rimangono a distanza di due secoli ancora condivisibili e  meritevoli di essere tenacemente perseguite. Ad entrare in irrisolvibile crisi  sono state invece le modalità punitive. Prima fra tutte, il carcere. Sul punto  non merita insistere più di tanto: il fallimento carcerario è da tempo  universalmente ed unanimemente riconosciuto. La pena carceraria aveva al suo  apparire persuaso per la sua efficacia preventiva. Il tempo ci ha mostrato,  senza ombra di dubbio, da vero galantuomo, che ci eravamo illusi: il carcere ha  clamorosamente fallito ogni finalità preventiva della pena.
      
    
   
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I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di  tutti coloro che intendono il vero senza pregiudizi ideologici: il carcere non  solo tradisce la sua mission preventiva, cioè non produce sicurezza dei  cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola  sistematicamente i diritti fondamentali, cioè attenta alla dignità umana dei  detenuti e delle loro famiglie.
  
      
    
   
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L’aumento della popolazione carcerata rende evidente  come la paura della punizione non sia un argomento capace di ridurre i reati:  lo spettro della prigione non potrà mai fungere da inibitore delle condotte  devianti - come peraltro non lo furono le sanguinarie pene di un tempo – per  mille e buone ragioni: perché l’agire umano non sempre è governato dalla  razionalità; perché la pena che deve seguire al delitto è una eventualità solo  probabile, mai una certezza; ecc.
      
    
   
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I detenuti risocializzati alla legalità, sono ovunque  pochi e lo sono “nonostante” il carcere e non “in virtù” del carcere. La  recidiva, in quasi tutto il mondo, supera il 70%. La stragrande maggioranza di  chi oggi è in carcere non lo è per la prima volta e non lo sarà per l’ultima.  Non esiste Paese al mondo che a questa regola faccia eccezione. E anche sotto  questo profilo, esiste una ricca letteratura scientifica internazionale che non  solo ci descrive il fenomeno, ma ci spiega anche perché il carcere – pure il  migliore del mondo – non riuscirà mai ad educare alla legalità attraverso la  sofferenza della privazione della libertà personale. L’esperienza oramai  secolare delle conseguenze della detenzione ci insegna, al contrario, che la  pena del carcere educa alla delinquenza e alla violenza.
  
      
    
   
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La prigione, sempre ed ovunque, viola i diritti  fondamentali e compromette gravemente la dignità umana dei condannati. Certo:  non tutte le carceri sono uguali sotto il profilo del rispetto dei diritti dei  detenuti ed è quindi giusto riconoscere che ci sono sistemi penitenziari  migliori o peggiori di altri. Ma non esiste esempio storico di un carcere  capace di limitare la sofferenza del condannato a quella sola che consegue alla  privazione della libertà personale. La pretesa punitiva di farlo attraverso la  privazione della libertà personale necessariamente comporta che altri fondamentali  diritti vengano sistematicamente compromessi: dalla vita all’incolumità fisica;  dall’affettività alla salute; dal lavoro all’istruzione; ecc. Il carcere, a ben  intendere, sempre più ci appare come una pena pre-moderna, come una sofferenza  più del corpo che dell’anima.
      
    
   
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Il  riformismo penitenziario può oggi giustificarsi solo in una strategia di  riduzione del danno. Si può, se lo si vuole, limitare quantitativamente le pene  detentive; si può, se lo si vuole, contenere la sofferenza del carcere. Ma  questo, confessiamolo, poteva valere anche un tempo per le pene corporali e la tortura. Ma così  operando non si converte il fallimento carcerario in successo. Anche il carcere  migliore è nella sostanza inaccettabile. Se, in ossequio anche al riconoscimento  di molte costituzioni democratiche moderne come quella italiana del 1947, la  reazione al delitto deve essere rispettosa della dignità umana e perseguire  finalità di inclusione sociale, il carcere – per quanto riformato – non sarà  comunque una risposta soddisfacente al delitto, perché mai il carcere potrà  effettivamente favorire l’inclusione sociale di chi ha commesso un delitto,  perché mai il carcere potrà essere in assoluto rispettoso della dignità umana  del condannato.
      
    
   
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Per  lungo tempo e da parte anche di forze progressiste si è coltivata la speranza  che un carcere riformato potesse trasformarsi in un’occasione di investimento  pedagogico e di aiuto per la maggioranza di chi impatta con il sistema penale,  che è – sempre ed ovunque – in prevalenza appartenente ad un universo di  soggetti deboli e marginali. Intenzione condivisibile e pure fondata sul  riconoscimento veritiero della natura prevalentemente di classe della penalità  carceraria. Sì, è vero, il carcere, fin dalle sue origini, è il luogo di contenzione  coatta dei poveri. Come è vero che si finisce in carcere prevalentemente perché  si è poveri.
      Sia chiaro: che i poveri debbano  essere aiutati ci convince, come politicamente ci soddisfa la missione di  politiche di inclusione sociale dei marginali. Ma ciò non consente di confidare  che la volontà di aiuto e di inclusione sociale possano soddisfarsi  nell’allocazione sociale della sofferenza. Fin che rimaniamo all’interno della  penalità, non possiamo che essere ancorati alla cultura patibolare del dare dolore  intenzionalmente e del dolore come unica moneta per espiare la colpa. Qui si  annida l’irrisolvibile paradosso di ogni riformismo penale.
      
    
   
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Credere  e praticare oggi una volontà abolizionista del carcere è irrealistico quanto  nel passato lo fu invocare l’abolizione della tortura e della pena di morte.  Nulla di sostanzialmente diverso: anche allora ai pochi che si schierarono  contro, i più opposero scetticismo, accusando gli abolizionisti di  imperdonabile ingenuità. Ma la storia ha dato ragione a questi ingenui: la  società senza pena di morte è più sicura della società piena di forche; la  giustizia penale senza tortura garantisce l’accertamento della verità di più e  meglio della pratica delle confessioni estorte sotto tormento.
      
    
   
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Liberarsi  dalla necessità del carcere perché pena inutile e crudele non comporta affatto  rinunciare a tutelare il bene pubblico della sicurezza dalla criminalità. Anzi:  per il solo fatto di rinunciare al carcere si produce più sicurezza dal  pericolo criminale, stante che il carcere è fattore criminogeno esso stesso.  Una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza  pena di morte.
      Ma liberarsi dalla necessità del  carcere comporta anche qualche cosa di più importante che ridurre le nostre  insicurezze. Significa liberarsi della pratica che fa dei poveri i soli capri  espiatori di una società fondata sulla disuguaglianza. Riflettete: è mai  possibile che le carceri di tutto il mondo siano abitate al 90% solo ed  unicamente da persone povere? Con ciò non vogliamo insinuare che la “detenzione  sociale” sia il prodotto di una accentuata propensione a delinquere dei poveri.  Le migliori ricerche scientifiche ci suggeriscono una diversa spiegazione: la  pericolosità criminale è distribuita equamente in tutte le classi sociali, ma  ad essere puniti e a finire in carcere sono prevalentemente coloro che godono  di minore immunizzazione dal sistema penale, cioè coloro che sono  economicamente, culturalmente e socialmente più deboli. E questa pratica di  verticalizzazione sociale per mezzo della penalità, cioè attraverso il sistema  penal-carcerario finalizzato alla produzione di maggiore differenziazione,  confessiamolo, è sempre più intollerabile.
      
    
   
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Per educare  le persone alla legalità ed al rispetto delle regole è necessario che anche le  regole siano rispettose delle persone. Questa ovvietà pedagogica è un punto  d’appoggio sufficiente per rovesciare il sistema intero della penalità. Perché  mai siamo tanto insensati e presuntuosi da presumere di educare al rispetto  delle regole attraverso la rappresentazione ed esecuzione di un dolore? Eppure  così è: tutto quanto concerne il sistema della giustizia che si fonda sulla  penalità è pensato, costruito, agito e giustificato per rappresentare e dare  dolore. Ricordiamo nuovamente: la pena è sofferenza inflitta intenzionalmente.  Non è un errore o un costo collaterale non sempre evitabile di un’azione  altrimenti positiva.
Quando si invoca la legittima difesa per giustificare il  sistema delle pene legali, si commette un grave errore: per invocare la legittima  difesa è necessario che la minaccia al diritto mio e/o di altri sia attuale,  mentre quanto la Stato  castiga il colpevole, il diritto mio o di altri è già stato leso o messo in  pericolo. Insomma: non si punisce per difenderci da una minaccia che ci incombe,  perché oramai è troppo tardi, ma solo per dare ad altri dolore. Ma perché  questo ostinato sadismo? E’ il permanere di un pregiudizio antico, quello che  confida che “la pena valga comunque e sempre la pena” di essere inflitta, che  il dolore sia cioè una specie di farmaco salvifico. Non tanto e non solo una  medicina utile per il condannato, ma anche, se non soprattutto, per noi. Questa  è la cultura patibolare da cui dobbiamo liberarci.
      
    
   
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E’, pertanto, necessario ripensare completamente a come  confrontarci alla “questione criminale”, immaginando una politica di sicurezza  dal delitto che sia in grado di mettere in crisi il termine stesso “pena”, che  evoca solo dolore e sofferenza, ridando invece dignità ai termini che usiamo  per indicare gli obblighi e i doveri nelle relazioni sociali. Più del 90% delle  persone che sono oggi in carcere, potrebbero essere ben diversamente  responsabilizzate e controllate in libertà: attraverso opportunità pedagogiche  ed assistenziali, attraverso modalità lavorative e formative, attraverso  risposte economiche, attraverso opportunità risarcitorie.
  
      
    
   
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Anche se ciò manderà in crisi tanti operatori e addetti ai  lavori, figli di una cultura carcerocentrica, è ormai evidente che le prigioni  devono essere chiuse per far spazio ad altro che sia effettivamente rispettoso  dei diritti anche delle persone che si sono rese responsabili di gravissimi  delitti. E’ realistico supporre infatti che avremo ancora necessità di  interventi segreganti nei confronti di alcuni, ma che pensiamo siano comunque  pochi, pochissimi, se l’attuale sistema definisce pericoloso solo un detenuto  su cento.
      
    
   
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La risposta al delitto non può che essere un intervento  volto ad educare ad una libertà consapevole attraverso la pratica della  libertà. Questa deve essere la regola. Ripetiamo: nei limitati casi in cui  questo non sia immediatamente possibile, solo eccezionalmente, si possono  prevedere risposte di tipo custodiale nei confronti della criminalità più  pericolosa, ma in quanto extrema ratio a precise condizioni:
      
      a) La perdita  della libertà deve realizzarsi all'interno di strutture che salvaguardino  sempre e comunque la dignità delle persone e i loro diritti. I luoghi preposti  per questo non posso essere le carceri che conosciamo: esse sono state pensate  per l’afflizione e la punizione e non per favorire l’inclusione sociale. Noi  immaginiamo altro: altro nella fisicità delle costruzioni e nell’economia degli  spazi, altro nella professionalità di chi è preposto al controllo, al dialogo e  all’aiuto.
b) I tempi  di questa permanenza in strutture segregative debbono comunque essere ridotti  al minimo e cessare in presenza di un interesse serio, da parte del condannato,  in favore di programmi di inclusione sociale in libertà.
	
   
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Per superare la cultura della pena e del carcere e riportare  le persone che hanno violato la legge alla legalità ed al rispetto delle regole  è assolutamente necessario che anche le regole siano rispettose delle persone!  Dalle persone non possiamo pretendere cose anche giuste ma in modo ingiusto!
    
    
   
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L’istituto della mediazione deve entrare stabilmente nel  sistema della giustizia penale, in modo da poter essere applicato nelle diverse  fasi della vicenda giudiziaria ed esecutiva, a seconda delle disponibilità e  possibilità.
    
    
   
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La risposta  alla criminalità attraverso la libertà deve coinvolgere tutti i soggetti  sociali del territorio e non può più essere lasciata solo agli esperti.